Oggi decreto conclusa una fase della mia vita. Quella in cui avevo ancora un genitore.

Sono tornato a casa, dove ha vissuto negli ultimi anni e dove anche io ho vissuto, con lei, prima di traferirmi e… e lei non c’è più. Era vero quello che mi hanno detto, era vero quello che ho visto, in diretta, dalla telecamera piazzata nel soggiorno. Lei non c’è più e ora sta con mio papà.

Allego prova fotografica. Questo è il divano in cui ha vissuto nei suoi ultimi mesi. In cui la svegliavo ogni mattina, le staccavo la flebo, le davo i farmaci di cui era piena quella scrivania gialla, dove la trovavo a sonnecchiare o a guardare la tv. Era proprio lì quando l’ho lasciata, vi giuro, ora non c’è più.

Per chi non lo sapesse, Antonia, mia mamma, aveva un tumore al pancreas e si è spenta a marzo scorso. Un tumore localizzato in quel punto è veramente difficile da trattare e più o meno tutti coloro a cui viene scoperto non superano l’anno. Così è stato anche per lei. Inesorabilmente ma fluidamente. Lo dico perché ha passato sette mesi tra casa e ospedali, tra pillole e flebo ma comunque stava discretamente bene. A febbraio l’abbiamo portata sul mare, andavano a fare la spesa assieme e altro. Tutto poi è successo in fretta: un mix di infezioni quando il corpo era troppo fragile l’ha sopraffatta. In due giorni era tutto finito. Lei con la febbre altissima si era addormentata come era già capitato, solo che quella volta, quella febbre l’ha portata via prima che si potesse risvegliare ancora.

Vedete, ora è con mio padre. Lui si è spento venti anni fa e mia madre lo ha raggiunto proprio il giorno della festa del papà. Coincidenze se vogliamo. Come anche pensare che adesso stiano spiritualmente assieme, per chi crede. Quello che posso dire con certezza e che adesso si sono ricongiunti, nella mia testa, nel senso che entrambi adesso hanno lo stesso valore simbolico, rappresentano cioè, lo stesso genitore che non c’è più, che puoi ricordare ma non puoi più toccare, di cui puoi ascoltare i discorsi solo dalle bocche degli altri ma non puoi intavolarci più una conversazione dal vivo. Non le puoi dire “mamma, ti ricordi quando?” o “mamma, che ne pensi di?” oppure ancora “mamma, non ti ho detto che” o infine “mamma, la vuoi sapere l’ultima”. Non ce n’è più la possibilità. 

Ma sapete che c’è? Io non ho rimorsi perché quando ne aveva bisogno ci sono stato, come lei ha cercato di esserci quando avevo bisogno io. Era la mamma, ma ero anche io la mamma con lei, forse e soprattutto, perché da quando era morto mio padre tutto era cambiato. Io sono dovuto crescere velocemente, avevo 8 anni, mamma aveva due figli in età scolare da mantenere e lei soffriva sin da piccola di depressione. 

Ne ho sofferto anche io, mi ero ripreso giusto da qualche mese quando abbiamo scoperto del suo tumore. Un mix di situazioni mi aveva colto e l’ho scampata bella, in quella stazione due anni fa. Da allora sono stato seguito da una famiglia ritrovata, dal medico e dallo psicologo e nel giro di un annetto sono rinato. Si, perché dalla depressione si può guarire, curandosi, e quell’apatia, quella voglia di togliersi la vita (che poi voglia non rimane perché spesso si concretizza), quel vivere travagliatamente la vita e le relazioni, tutto questo passa è davvero la vita diventa un’altra vita. 

Questo a mia mamma non è successo. Non lo avevamo capito, non lo sapevamo. Non lo ha mai capito appieno nemmeno lei.

Noi non lo avevamo capito finché non è successo a me. Allora abbiamo riconosciuto i sintomi, abbiamo capito che era una malattia vera e propria la depressione e che, come tutte le malattie, si cura. Devo dire che è una cosa subdola, cioè, vedi questa persona, la vedi spesso sana all’esterno ma dentro è un inferno. Non si lascia nemmeno guardare all’interno, figurati, sarebbe tutto più facile ma invece non lo è affatto. Certi problemi succedono e tu non puoi far altro che odiarla e mandarla via. Delle volte succede così. Delle volte ti manda via lei stessa, la maggior parte. 

Questa vita turbolenta l’ha accompagnata da che ne abbiamo una prova cartacea. Le crisi di nervi da piccola, da adolescente, le lettere che mandava a mio padre che era via e a cui raccontava la giornata. O il loro stesso amore travagliato, lo era nella sua testa e veniva fuori nella realtà. Da piccolo mi ricordo che andavamo al pronto soccorso immancabilmente ogni anno. Una caduta, un dolore al braccio, un dolore alla gamba. Chissà come mai succedeva e alla fine non c’era una causa. La causa c’era, depressione mascherata la chiamavano i medici, una cura c’era. La volontà di mia mamma era quella che mancava, la nostra consapevolezza anche. Le cure venivano iniziate e poi interrotte. Vivendo questa cosa da tutta la vita tu non sai cos’è la normalità, che questa non è la vita vera, la vita che vivono le persone sane, la vita che tutti si meritano di vivere.

Quando invece capitò a me, mamma ha intuito, doveva tra l’altro avere la forza di accudirmi e quindi anche lei (ri)cominciò a curarsi.
Come un mantra che si ripeteva dalla morte di mio padre, e forse da prima non so dirlo, lei doveva avere la forza e faceva quello che faceva per questo. Doveva andare a lavoro, doveva continuare continuare e continuare. Ma la depressione è duale, come la sua sindrome bipolare, aveva anche quella e altro. Al contempo voleva mollare mollare mollare.
Quindi in poche parole non lo faceva per se stessa, di cercare di stare bene, lo faceva per gli altri. Ma questo non basta per guarire. Me l’ha detto lo psicologo, lo ha detto il medico anche a lei, ma niente non riusciva, era nel loop della malattia e quindi, fino all’ultimo, se si fosse curata “lo stava facendo solo per me”. E così, quando sono andato all’università, ha abbandonato il voler essere ancora un punto di riferimento per qualcuno. E così, quando mi stavo riprendendo dalla mia malattia e non avevo più bisogno, ha smesso nuovamente i suoi farmaci. E così, quando è arrivato il tumore, era di nuovo intrattabile e abbiamo più combattuto con la sua testa che con la malattia che l’ha portata via. Un paziente non collaborativo l’hanno chiamata. Vivevo a casa con lei ma ehi, c’era bisogno di quella telecamera in soggiorno per sapere cosa succedesse quando ero nell’altra stanza. E così, quando a febbraio mi sono trasferito, abbandonandola, anche lei si è abbandonata spegnendosi sotto la scure delle infezioni. E in fondo era quello che voleva, stremata così dalla vita che aveva vissuto.

E così se n’è andata, siamo stati fortunati a inquadrarla prima che se ne andasse. Sapevamo chi era, cosa avesse, perché era successo tutto quello che è successo nella nostra vita con lei, nella nostra infanzia, nella sua. Sappiamo quello che ha passato fin da quando era piccola e di come non ne sia scampata fino alla fine. Abbiamo preso i momenti belli con lei, valorizzati, sopportato i momenti bui, con una nuova consapevolezza. Le abbiamo fatto vivere i suoi ultimi mesi al massimo, che lei un giorno se ne accorgesse ringraziandoci o che quello successivo ci urlasse contro che le volevamo male. Era mamma e l’abbiamo accudita. Ecco perché non ho rimpianti adesso.

È bellissimo fare pace con il proprio passato. Capire e accettare. Nello specifico, capire e accettare i propri genitori, che non sono dei, non sono idoli, sono persone. Con una propria storia, con i propri problemi, con le proprie azioni, belle o brutte che siano, che siano state. Sono persone. Come tali, non puoi non ammettere che sono e siano state bellissime.

Un monito però: la depressione non deve essere una parte integrante della vostra vita, non una cosa secondaria da sottovalutare e pensare in un secondo momento, non una zavorra che non sapete come e se si può togliere. È una malattia invalidante che la vita non ve la fa vivere. Sappiatelo. Fatelo sapere agli altri. Non dovreste avere paura di dirlo. “Ho scoperto di essere malato ma tranquilli, mi hanno detto che si guarisce e che poi è una vita nuova”, così dev’essere. Per favore.

Spero che questa storia, la storia di me e di mia mamma vi abbia arricchito almeno un po’. Sono stato prolisso e ho usato poca punteggiatura perché l’ho scritto di getto. Discorsivo. Come se vi avessi incontrato e vi avessi raccontato questa storia di persona, da amico.

Arrivati alle conclusioni, che posso aggiungere.
Ciao mamma, ciao papà.
Prometto di vivere la mia vita appieno come avreste voluto anche voi per me.
Ora siete dei simboli immortali e vi terrò come insegnamento per sempre.

Dario

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